31 gennaio 2010

Il canto della casa d'amore

Roma novembre 1991
Alla memoria di Margherita Ferretti e Gino Natalini


Tu non mi dire, disgrazia di un uomo in amore,
le fitte superne, l’inclito dolore, il mistero:
un dito di luce che punta una statua,
riluce su un volto, poi sviene. Talvolta
farfalle occludono l’occhio, talvolta so’ anelli
e di questo rimbrotto me stesso.

Stanotte non taccio: mi tace piú forte il silenzio.
Ascolto la voce di erinni, maturo e ristempro l’inferno,
attutisco le voci. Nulla di questa dimora m’implora
di cedere all’uomo: all’homo communis, banalis,
all’uomo qualunque, al mortale, che rode in me stesso.

A volte una strada (ha spiovuto), a volte una donna
e la vita non pare ma è una madonna ad amarla:
un giorno di sole spruzzato di brezza; l’azzurro,
l’azzurro degli occhi pensosi; il silenzio d’amore;
la cara carezza.

Eppure stanotte m’avvolge una stanza divina:
la stanza dei nonni. È una vecchia cucina
del secolo scorso, un’umile piega profonda,
un anfratto un po’ opaco, ma opaco di brina,
la vecchia dimora dei mièi nonni morti.

In questa mia vecchia dimora ho posato
il mio corpo liberto; qui ho soggiornato per breve nel giorno,
coperto di fresco; nel caldo meriggio di luglio
ho reso me stesso quasi stemprato, appurato d’intruglio, d’intrigo.

Cosí fu la notte, il mattino, di un mio eremo noto
nella vecchia dimora al minimo moto dei muri.
Ogni passo gridava gigante ogni crepa nel muro, ogni riga:
un bordo di tavolo era una lettiga sconvolta.

Io amo isolarmi e nel cavo del cielo
cantare canzoni ai delfini: loro mi passano e sanno,
in corpi piú fini di brune formiche, passare gli enormi
estesi bacini del mare.

Eppure so che una conchiglia dovrebbe per breve
farmi da tana: un chiaro animale teme la lana che ha addosso.
Io canto nel buio percosso da luci lievissime,
da strane carezze. Io so se, delle mie brezze intoccato,
mi giunge una luce da un ramo.

Non sono che bello stasera, nel mio lauto dolore.
Io non sono giammai di nessuno a quest’ora,
biondo in me stesso, ma di quella ragazza, la pazza,
a cui ogni giorno mi avvezzo, piú buono e sincero.

Io so che il dolore è una spina nei campi:
e lei è contadina. Aro la terra e semino poco: ma buono.
Semino luce ed il tuono mi chiama la notte.
So le sue braccia, di sopra, tenere e cólte, raccolte.

Stanotte son pazzo e celebro il lazzo d’amore
smarcato: io voglio la notte e tengo la notte
nei miei folti pensieri. Ma semplice il dito
e la piega del naso piú rude; piú ferma la statua
e piú fisso il sentiero passato fra aiole.
Nel muto suo giro di chine il monte emiliano
risuona piú fresco e leggero: ma prega, ci impetra, si china
alle nostre persone.

Nicola D'Ugo

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