Notizie dalla Bosnia

Roma e Reggio Emilia, luglio 1994-ottobre 1995


    1. L'uccisione degli autisti

Guardò diritto il piombo della gente,
la folla enorme stretta in quell’inferno;
si seppe morto e non ne seppe niente;
si volle vivo e non si seppe come.
Sotto i fiori bianchi col suo dente
il mostro piccolissimo, detto verme,
gusano, ver, worm, Wurm, o altro stento
marciume delle anime più erme,
si scava fori piccoli, innocenti,
labirinti planetari, viacoli,
condotti, vive di poco, imberbe.
Ma mani coi grilletti per anelli
non v’è pietà che abbiano pel mostro
umano, per il simbolo, i dementi.


    2. La strage del mercato

Morì nell’ora piena del meriggio.
Sangue dovunque e la strada allagata:
decerebrato il cranio, e via il cervello
a pezzi, altrove, giallo e spappolato.
Fu il giorno suo, il giorno del macello,
sangue nel sangue della livida strada.
Nessuno potrà dirgli ciò che è meglio,
se pace vittoriosa o ancora guerra,
fiore fra i fiori in un clima sbagliato,
labbro che non cantava, ma cervello,
braccio, cuore, che ancora palpitava.
Nessuno potrà unire a queste croci
che crescono un sermone di speranza,
né adergersi a patrono solenne,
né in promesse ribaltare il tempo.
Fra i tanti morti si aggiungono questi
morti, senza una causa o un’ideale
che li spingesse lungo le insabbiate
prode, ai limiti del compimento,
ad un passo dall’arrischiato Ade.
Chi uccide altra vita per la vita,
chi fa della sua fede fede altrui,
bestemmia d’ignominia fede e vita,
si crede grande del piccolo che è suo.
Ma chi nell’ora piena di un meriggio
qualunque perde la vita, non giudica
il male altrui, i colpi di mortaio,
gli spari, le assurde fanfaluche
in cui ancora noi ci dibattiamo.
È facile da vivi giudicare i morti,
o nel godimento di un piacere
effimero dimenticare tutto
e tutti, solo con sé riconciliati.
Fu il giorno loro, il giorno della Morte:
strilla inconsce in crani spappolati.


    3. La strage del mercato 2

Vorrei parlarti, ma dico di te
che morì in un meriggio assolato.
Non hai più sangue: non v’è perché
pei morti nel sangue sbriciolati.

Se avevi un nome tuo, un tuo amore,
ci resta di un morto solo il nome
vuoto, come tu sei in quest’ora
che vedo inane, a pezzi, un cadavere.

“Dio ti benedica insieme a tutti gli altri,”
diranno in molti per ognuno dei morti.
Tu canti forse con tutti i tuoi difetti
in uno spazio in cui son molti i sepolti.

Non ho per te altre parole stasera,
il nome e l’uomo mi sono indifferenti;
ma se la bomba ha brillato per ucciderti
ucciderà altri dopo questo scempio.

Sei stato uno dei tanti, già freddo anche tu,
e molti seguiranno una morte di ghiaccio.
Temevi questo. Svaniva poco a poco,
come svanisce ancora pei vivi, la speranza.

Per questa tua morte, e perché non vengano
altre morti a computarsi con gli zeri,
per questa tua morte, questa sera,
farei levare i cacciabombardieri.


    4. Le voci dentro Sarajevo

Né dal monte più alto o la più dura
bastia, né dalle più veloci stelle
vengono questi colpi di mortaio
a confinarci. V'è terra, dovunque,
altrove, nello spazio d’infinito
che respira dai suoi bronchi di Veneri
e conchiglie; isole a cavallo
sui mari, a scorrazzare ilari
filari di fenici, a batter ciglio
semivergini pudiche. Non dalla
montagna più alta della pietà
divina, né dal muro più indolente,
di mattone cotto in grembo all’inferno,
né dai più rapidi astri intorno a un perno
vengono a castigarci. Ma dai monti
di fronte, volti umani senza fronte,
non visti, geometri ed ingegneri
invisi dai compagni imbracciano
le armi, s’inchiodano alle macchine,
muovono le leve. Non per me e te,
bambina, sul monte più alto dei
dintorni da cui scendeva la mite
Befana in sordina, vengono questi
spari a radunarci. Le verità
delle fiabe che sapevi da sempre
per sempre se le riprende il monte
astioso, che rugge, infiamma e insanguina.


    5. Pulizia etnica

Di sera si tace, ché un mare d’incenso
svapora per noi. E le mani non sanno:
non sanno la pena di giorni stranieri
nell’eremo vostro. Cieli girandolano,
spazi si flettono, e suole di terra
hanno occhi per crepe che non vede nessuno.
Fumi si alzano e gonne nel vento
pesano. Labbra che ardono: e non arde
forse di me questo simulacro che teme?
Non sono mai nulla io nel mio impero!

Carovane disegnano i volti, li segnano
di solchi severi. E voi non parlate
che ai vostri compagni di viaggio.
Tacciono i vecchi e i bambini guidati
si accampano. La luna che piega il suo crine
è la stessa di questa che chiama i miei occhi
per voi. Non tacerò, lo prometto, seppure
sia al vento o al compagno che ascolta.
Parlerò per voi senza avvertimento.
Questo solo sapete, che io non vi dico:
qualcuno vi vede lo stesso senz’ali,
ha flebile voce, ma urla e vi dice
compagni nel cuore. Mi volto al compagno
e lo invito: “Proviamoci ancora!”

La notte è più fredda ma il cuore mi dice
nel buio: “Proviamoci ancora!”

Nel buio accendo una luce ch’è chiara e che dice:
“Proviamoci ancora!”

Ancora la voce mi dice nel chiaro di luce
che l’uomo con l’uomo conduce a una luce
in cui infine con gli altri l’idea si traduce:
“Proviamoci ancora! Proviamoci ancora!
Finché c'è vita e speranza di vita
noi lungo una via che appare indecisa,
più forti in accordo a una meta precisa,
uomini e donne, proviamoci ancora!”

“Proviamoci ancora!”

Dài forza al bambino e al ferito…

“Proviamoci ancora!”

Metti al collo la compagna ammalata…

“Proviamoci ancora!”

Di croce in croce che spunta fra i passi…

“Proviamoci ancora!”

Non sia quest’unica vita che abbiamo un trastullo di pazzi,
che gli uomini ammazzi e la morte procacci,
che tratti il corpo umano come stracci
nel vento di strade d’arditi paparazzi.

Qui di sera si tace, e un mare d’incenso svapora per noi.


    6. Stanchezza di milite straniero

Non ho che voglia di morire senza
virtù né spari. Risorgere vorrei,
risollevarmi dalla montagna: ridere,
abbracciato, in un attico. Chi dice
che la felicità è un’altezza? È un parigrado
intimo, un tête-а-tête, uno sfogliare di
palpebre e riguardi, l’approfondire,
il ripassare, il soffermarsi sul para-
grafo di un bacio. Un’ora, dieci? Che
importa? Come coi vecchi maestri
afferrati in un libro, per le vesti,
così, tanto per stare insieme e ascoltare.
Un esser pari all’altro, ma senza illusione:
senza la procellosa intrusione del
critico o del lettore occasionale;
senza l’intrusione del medico o dell’amante,
del ginecologo o dell’ex.

Non ho che voglia di morire senza
virtù né spari. Ma risorgere vorrei:
salire sulla montagna e nell’attico
chiudermi con te, mio amore.


    7. Il silenzio del vate

Quando ritorna dalla guerra il vate
si porta un’amarezza di sconfitte
sfacciate, e non le dice al padre. Tace,
come tacciono le vedette poste
troppo in alto sopra un mondo di fiabe.
Martire di verità che fanno male
pensa a quei martiri in sé stesso, e in pegno
verga pagine come un passatempo
arcano, chiuso nel suo muto sdegno.
   

    8. Marta, Nimo e le tombe

I verdi prati e gli occhi dei bambini
bellissimi. Le smorfie e le ditine
nel naso. Gli alberi, alti. Le anime:
l’una, poi l’altra, dietro al guiderdone

d’un bacio. Le case basse. Le case
alte sopra giardini e traffici
di calze. Il vecchio e il suo bicchiere a dose
di paese intavolato: e tu ne odi

di voci dalle soglie cicalare,
e ne vedi di visi intenti a cercare
fra le mani il destino delle ere
ferme a questa, scrutare ai polsi le ore

che si appropinquano all’appuntamento.
Bello il pino antico del vecchio Nimo,
quando campane chiudevano il conto
del giorno, leggere. Cose che amano.

E bella Marta, col suo seno candido
di grazia ricolmo: la grinta d’ebano
e il palpito del cuore che s’effonde,
ora che il pensiero di lei si liba

un attimo. Vero, bambini? Vero
che il pensiero si nutre di trastulli?
Piccole care creature nel nero
fumo delle guerre, grigio dei crolli

dei palazzi in cui stavate. Piccole
creature: piccole, impotenti, a fronte
di una guerra che ci umilia. Se tocco
le mani vostre v’afferra la mente

e il braccio. Tremo a lasciarvi inermi
come Marta in una fossa di bombe:
abbandonarvi come i bimbi ai corvi,
Nimo nella polvere, storte gambe

in ecatombe. L’amore e l’amore.
Perché v’è solo amore in questo mondo
d’amore e amore. Ma cresciute avare
voglie di uomini che vanno a fondo,

ci confondiamo tutti da millenni.
Non sappiamo liberarci più delle
catene in noi. Ci confondiamo indenni
e uccisi. Ci confondiamo. Molle

cade la sera e vengono le stelle
a visitare noi, per ricordare
a noi di dimenticare le balle
di cui ci andiamo sincerando. Sere

tristi le molte senza stelle d’oggi.
Tristi. Stanotte cadono le bombe
su Zagabria: dagli occhi anche i raggi
s’ascondono, e Marta e Nimo fra le tombe.


    9. Il ritorno del vate

Quando ritorna dalla guerra il vate
non ha più sangue sui vestiti sporchi,
ma gli occhi delle madri dentro gli occhi,
le iridi dei figli alla guerra scampati.

Non ha più il pane in bocca, ma lo sente
ancora duro, ancora insipido fra i denti;
e rivede dietro gli occhi i denti rotti
dei suoi fratelli in balia della guerra.

Si posa un poco il vate sulla soglia
di casa, si guarda intorno stupito,
esterrefatto appena un attimo:
il tempo di un sospiro. È a casa propria.

Ascolta nel silenzio della notte
i suoni familiari che trascorrono
usuali, ma che pare li impari
solo adesso. Gli riappaiono i primi

volti di casa: Marta, Chiara, e i vecchi
amori di cui ama i cuori, il vate.
Si guarda attorno: lo scrittoio vuoto,
lo schermo quieto del computer spento,

le carte accatastate presso l’angolo
di un luogo angusto, intimo e privato.
E nulla più delle anime che ha amato
vorrebbe unirle fuori della guerra:

ma vi sono monti e fossati, strade
troppo impervie e bombardate, pericoli.
Lo sa fin troppo bene il vate ch’altri
sono i limiti dei mondi spartiti:

sa bene, nella pioggia dei pensieri
quieti, che Marta e Chiara, Silvia e Rita
e i mille amori che squillano improvvisi
al telefono e teneri in inviti

sanno ascoltare dei viaggi intrapresi,
non possono capire le ferite
nere e il sangue, i poveri occhi degli
uccisi in battaglie o al tavolo da pranzo,

né si può dire dell’erba fra i denti
sopra un sasso seduto a parlare
in monco inglese il vate con la bella
giovinetta a Sarajevo. Non possono

sapere che nell’urna di un assenso
il senso stretto d’esser solidali.

Nicola D'Ugo

[Pubblicata in: Notizie in... Controluce, nn. VIII/1-2-3-4-6-8-12, 1999; IX/6-7-8-12, 2000; X/4, 2001; e Poets Against War, August 5, 2005]