Racconto di un'estate

Roma - Reggio Emilia - Warren, NJ (USA) 1987
Alla memoria di Alessandra Ferretti


    1. Grosseto

Grosseto s’intubò, divaricò
e stette—come un maglione.
Le trombe della notte eccitavano
il contrabbassista in mutande
e qualcuno, dall’abisso d’una stanza,
rivendicava monotono il diritto
del sonno—come fosse vivente.

Un’anima morta era volata,
o troppo greve s’era posata
fra elitre stellate,
sotto il peso d’un fiore
esile come la vita tutta.

A Punta Ala volavano palloni
fra mani diversissime,
ed un altare di risi
era la vita tutta,
ch’oscurava, da me esiliava,
la morte.

Avrei fuggito la vita se dall’Ade
pure un’anima fosse tornata
con altr’anima al collo.

Ma le tue bianche braccia
non so ritrovare.

Grosseto, le lacrime asciugasti
sui sedili di un’auto, sul maglione
d’un corpo riverso a eclissarsi,

da lui allontanasti le lune storte
e il suo dolore.


    2. Giorno di monti, notte di monti

Giorno di monti, notte di monti
e stanze che recano sale e vino
nel cuore d’un angolo.

Portano sguardi muti gli uomini
sulla via del ritorno, e tu,
già chiuso nel giorno, prevedi e leggi
il bianco degli occhi, le stelle dell’iride
e il tuo cammino.

Collagna vi disse il mio nome,
a ognuno di voi disse il mio nome
che cambia nel tempo,
come un viso o una mano,
come una parola che torna
da molto lontano.

Notte stellata, ed il fiume è l’oblio:
sirene cantavano il mio nome con voce
troppo simile alla tua
perché la valle non distorcesse
tanto bella parvenza.
E mai andai giù a valle
per vedere disteso il tuo corpo,
il tuo sguardo che mira il flusso
del fiume Secchia, la tua bocca
aperta a non dire.

Paola attende qualcosa nel sonno,
Claudia è ivi posata. Lungo i torvi
ombelichi di strade, qualcuno trascina
l’ombra ai miei occhi, mi s’orizzonta
e s’unisce al mio dolore:
smuove un saluto dagli angoli
della bocca contratta
in una serietà di congiunto.

Seguiremo una strada e una strada
stanotte
accenderemo fiamme presso
la tomba di lei,
a creare istanti di non vita ansimante,
presso una non vita più grande
per noi meditanti.

Collagna, ed i tuoi muri stretti e bassi tetti
dove s’annida l’amore pur anche nel ricordo
da cui uscisti viva più volte
ed oggi m’appari ferita da una casa
più bassa e più stretta
dove non alberga il respiro.

Rondini, ubriacatemi di canti,
aggiungete al vino e all’insonne sbronza
del mattino
la vostra voce mellificante!


    3. Bave di stelle

Bave di stelle composero la seta
dei tuoi canti di vento.

L’oro indossasti come una dea
e il verde come un bimbo che ha nell’occhio
una soglia e un pioppo erto lontano.

Che martirio saperti obliata da un cielo
che tanto t’amava.

“Qui resto,
come una schiava dei sogni.
Venite a trovarmi ogni tanto
col vostro memento scolpito
nel vostro volto d’amanti.”

Oh nell’attesa è la coscienza
se sei tu che attendi.
Per noi una esile parvenza che si frange
nelle prime ore dell’alba.


    4. Sogni, sogni, e i miei poeti

Sogni, sogni, e i miei poeti
non m’aiutano a tracciare
i confini dei giorni

e il dolore ch’evapora e cade
sul mio volto e l’oblia.

Parole. Sogni e parole. Anime d’ombre
che scalpicciano un liscio di fine estate
e si perdono fra i muri delle case
che l’auto confina in linee d’orizzonti—
come i pensieri.


    5. L'arte dell'arrangiamento

Nell’alba di Lerici
scaraventai la notte
spensieratamente.

Come un’onda
ogni uomo cozzava, a quell’ora,
con la desolazione del molo.

E quattro uomini venuti dai monti emiliani
criticavano Guttuso e la sua arte.

A Marinella
blaterai due frasi d’inglese
ad alcuni tedeschi, e il pallone
schizzò fra i miei piedi
come una favilla più agile
d’un qualunque caffè:

e lì l’arte dell’arrangiamento
sospinse un barlume d’arroganza

a cadere su sabbie malcerte—
come il pallone.

Vivremo oltre questa notte,
sapremo forse nel cuore malcerto
l’arte dell’arrangiamento.


    6. Ale alla morte

ALE ALLA MORTE:

Amami Tereo
o mangia le carni di tuo figlio!


    7. Che notti, che otri

Che notti, che otri di silenzio
bruciavano le labbra più del respiro.

Qui non sei, e altri otri son pieni
accanto alla tomba.

Oh speriamo, tu ed io,
che mai egli riviva i tuoi baci
nell’alto volo d’un memento:
oh che mai si infranga,
che mai si stacchi da terra.

Questa e l’ora dell’uragano
e nessun molo attende—
solo l’uomo disperso
può fremere e sognare.


    8. La tempesta notturna

Erano le undici
e il temporale ci prese
la luce elettrica e una sera
come tante altre sere

e ci diede giochi nuovi e candele.

Io traducevo
Il canto d’amore di J. Prufrock
a un’amica reggiana

e la porta s’aprì
e cadde acqua dalle vostre
vesti,
e il pavimento fu tutto un pantano
alla soglia

mentre altri ed altri entravano
che avevano un nome,

ed uno mi porse il suo
come una foglia d’oro
che va appesa al collo:

piccola, nuova,
facile da portare.

Eravamo amici eppure
nessuno lo diceva:
appena dai giorni del tempo
ogni foglia s’assise
su un unico ramo.

Parlammo e mimammo
i nomi dei film
ché a vicenda
fossimo colti aggrovigliati
nell’arduo gioco d’una comunicazione
gestuale,
a cogliere frutti di segni
dall’ampio mondo del giorno
che nessuno discute,
ma ognuno adduce a narrare
il senso del verbo.

Così una notte.

Qualcuno disse: “Mima ai tuoi compagni
Luna di miele stregata.”

E uno fu l’orso, e spalmò
il miele su una fetta,
e fu Pinocchio e la Fata
e fu ancora uno sciame
ed un mostro:
e nessuno capiva.

Oh quanto è difficile
cambiar codice pur anche
con coloro che ami:
e i suoni liquidi e una frizione
fra i denti, i sibili notturni
quasi mormorati dagli amanti,
e le vocali aperte e chiuse,

che mondo di segni!
Oh ma poco importava—
avvincente è la lotta
se tutti hanno le mani legate
e possono scioglierle
alla fine del gioco!

E dopo il gioco
una parola e via
nella pioggia attillata alle case
come un’aria vertiginosa.
Via nella pioggia
e nella vettura
a cercare gli odori che vanno nel sugo
d’una cena notturna
di penne e di vino

e baci e parole
e carte posate su un piano
d’angolo
che nessuno le possa sporcare.

E poi la danza di Parpi
seminudo dio del ritmo interiore
esteriorizzato
per noi presenti

e qualcuno si scosta
dal corpo frenetico
e altri urla: “Tormentón!”
a squarciagola ridendo.

M’unirò a questa danza,
uscirò fuori di essa.

La luna inciampa
in un prato di nuvoli,
s’alza più tardi
da un campo diverso

e qualcuno assonnato va a letto
innanzi l’attesa.

Le strade percorremmo
innanzi che l’alba fosse accennata.
E nella notte di tormenta
le strade erano erba
e i campi di terra,
e tutto era un mondo di sassi
che avesse deciso
di sciogliere le proprie membra
in un deliquio d’addio.

Solo, più grandi e maestosi,
apparivano i rivi ingrossati
che avresti chiamato fiumi
guardandoli

e poliziotti e carabinieri
vagavano con le loro vetture

cercando nell’alba il sereno.

E su, verso casa di nuovo,
a cantare la vita
con dentro una morte sì grande
che l’avresti potuta sapere
mirando dall’alto i miei occhi
che spiccavano stelle,
e lessero il sole attraverso le nubi,
come un belletto.

Mattia e Paolo dispersi nel tempo,
Dino fuggito, Gianluca dimenticato
prima d’ogni ripensamento

e il mondo che dorme e si sforza
di farsi nuovo al mattino.

Oh la casa di Paola venuta
da Avenza
e tanti visi che sanno parole
e scelgono a volte il silenzio

di baci e d’abbracci
che son fonti di fiumi
ben oltre il memento.

Oggi l’ardore
va ben oltre
l’ardore d’un tempo.
E tu viva in quel tempo
ti fai più grande che mai,
sopporterai –magari cosciente!–
i miei prieghi e i miei sogni
di te viva.

Torvajanica, Ciampino
e la strada di un treno
che a te giungeva.

Eppure tu, forse tu, sai
che l’ampia volta di astri e di stelle
seppur tetra splenda stanotte nell’uragano
ci splende per te.

L’ombra ebbra della tua carne
tutti ci unisce, ci trascende.
E il tuo grembo d’ombra
sfiora il viso delle nostre concezioni.

Ora occorre, ora serve
l’arte tutta italiana dell’arrangiamento.
Ora che i gesti nostri,
a te così sovente rivolti,
ci restano attaccati ai precordi
delle nostre concezioni future,
ora che la tua vita
pulsa in noi più sicura.

Nicola D'Ugo