Poesie nizzarde

Nizza (Francia) 11 e 12 marzo 1994


    Quand’ero giovane e premio dell’estate

Quand’ero giovane e premio dell’estate,
di cose scomponentisi in posture,
sognavo di salire sulle alture
piane e, pianamente, sicure. Io
sognavo nell’afflato di distanze
questa giovinezza di presenze
semplice e futura. Non semplice
a me stesso m’immaginavo l’altura
che si guarda dal basso, immaginavo
i colori compositi di prismi
che si frangono, immaginavo
l’esotico del canone incompreso:
l’Altro che si scosta al palmo, all’occhio.
Poi tutto fu uguale al semplice se stesso:
passata la New York del verbo facile;
entrato nell’Europa dei cassetti
semplici e vivaci. Non v’è mondo ancora
diverso dal mondo che mi delude,
eccetto la fantasia che si preclude
il Terzo Mondo per tema di iattanza.
Non là pace io trovo, né troverei,
ma nel fantastico reinventare Toscane
a cui d’altr’era pur io mi cederei.


    Ora che è notte, che la parola

Ora che è notte, che la parola
avrebbe un’eco spenta nei muri;
ora che è notte, che la lordura
umana accetta i suoi cassetti; ora,
di notte, quando la voce tace
o bisbigliando come la brace
tosto si dispegne: ora è notte.
Ora che a sopraggiungermi non giungi,
ora che la memoria sa che lungi
sei come non sei mai stata: folle,
pazza, lontana, savia o madre. Ora
sai che sei ciò che ti appartieni. Sai
che della speme non so le direttive.
Punto focale, tu, disperso come
neve: taci, non dici, taci. Stai
dove la memoria ancora ti
contiene. Stai: in una mia fantasia
che ha ormai il cappio dell’immaginazione.
Stai, tu, dissimile a te stessa, altrove,
ove non t’ode la mia voce…


    Stai, ove non t'ode la mia mente

Stai, ove non t’ode la mia mente,
stai, muta, come se da sempre la
mutevolezza fosse questa tua
posa arcana, in lontananza, arcana,
tua, prossima a te, da te ispirata
come in me passata a farsi muta
d’ora in ora, d’ora in ora e poi…
completamente ti sei da te sola,
involontariamente dimenticata.


    Sta seduto in un campo, come un cardo

Sta seduto in un campo, come un cardo.
Tace e acconsente come un cardo, al vento.
Non dice né parola né perché,
né il destino o le circostanze piú strette
del cardo esprime, ma sé e sé soltanto
mostra involontario nel vento franto
dalla testa e dai denti, dai pistilli, dai petali,
dalle foglie spigolose, dai colori mutevoli
secchi duri di lui, il cardo.
Sta solo come una particola in un campo.
Un cardo, una particola.
Un vento ulula per gole di ginestre.


    Natura morta

Distaccato (e dentro il bicchiere)
dall’altro (dentro la bottiglia),
rosso, il vino, o rosé (qui in Francia,
come in Italia per prestito e destino),
entro un cono rivoltato che traspare,
poco a poco, fino all’ultimo colore,
fino al rossore del paniere (oltre il vetro)
rosso d'un altro rosso, stabile di sé,
piú esteso, non speculare, non speculare
ormai con la bottiglia, non speculare,
col suo pane bianco e brustolito,
appoggiato dentro, non suo, eppure per sé
stabile.


    Erano le cinque e dieci

Erano le cinque e dieci.
Poi l’aereo decollò.
Vi fu
prima
un trambusto,
poi
s’elevò, toccò una stella l’aereo.

Certo era tutto molto bello,
ma sotto... sotto v’era la Terra,
la sua massa geologica
i suoi imperi.
Il sole lo bruciò
in una lenta ma immemore (di sé)
fiammata.

Phalòòò phalòòò phalòò.

Poi un nipponico, dalla lingua ladra,
portò il sole sopra la bandiera.


    Space Shuttle (Challenger)

Sotto, la folla.
Sotto, pronti, i reattori.
Piú sotto, le pedane, le architetture
varie
che sostengono i missili.

Piú a sé vicini gli occhi,
degli uni agli altri, significativi.
Piú vicini degli occhi i nervi, tesi,
rilassati, tesi, attenti, pronti
a reagire.
Piú dentro, l’anima, contratta.
Piú in alto i missili, sonori.

Poi, dovunque, il rimbombo
dopo l’accendersi dei reattori e, dopo,
l’effondersi del suono, dopo,
gli ultrasuoni nel cielo in vapore.

Una fiammata, solo una fiammata
e la gioia si convertí in dolore.

Poi pezzi dappertutto, lontani, nel cielo, nel mare.
Mia madre che cuciva la mia veste,
mia sorella che stranamente impastava.
Io che come un pazzo piangevo in silenzio
mentre un’impresa esangue sfumava.


    Ha due occhi, il bue

Ha due occhi, il bue,
che esprimono
tenerezza: zucca vuota
animata.

Ha due mani, due palanche,
l’uomo alla mangiatoia.

Il fieno svapora nel fiato.

Dopo giorni di moto per le stalle
mi adagio un cuscino alle orecchie.


    Ha una bocca, brutta quanto si vuole

Ha una bocca, brutta quanto si vuole,
bella quanto si vuole, il bue
alla mangiatoia.
Lo guardo come, a volte,
silenzioso o caciarone,
ho rimirato per un niente
un compagno di carte, medesimo tavolo.

Sfuma la carta sana della mente.

Il giro mi chiude in salita.

La mulattiera dal fiume va alla stalla
e risalendola la giornata è finita.


    E tu pretendi che io ti di credito

E tu pretendi che io ti dia credito
per tutte le movenze che compagne
recavi teco per soprassedermi.

È segno dei tempi che io mi stanchi
d’ascoltarti o rimirarti. Non v’è
altra musica per me che il perdurarmi.


    Questa

Questa,
che tu dicevi
casa
nostra;

quella,
che al moto bigio del giorno
io non dico
piú, né mia né tua:

entrambe, questa e quella
ormai non t’appartengono
come non t’appartieni tu,
bella o stella o micia o dama,
o tutte insieme in quadrupla favella.


    Ed io mi immagino che veniate al party

Ed io mi immagino che veniate al party
e al party restiate. Mi immagino altresí
che stiate bene, e che vi divertiate.
E la mia immaginazione mi dice
che partirete contenti su barca, auto e treno
e che l’aereo fra le nubi
qualcuno conterrà contento,
nelle aeree vie, in un mare di sole.


    Qualcuno mi dice che verrete a trovarmi

Qualcuno mi dice che verrete a trovarmi.
Qualcuno me lo dice per ore.
Per ore verrete a trovarmi, a dirmi cose
che mi hanno sorpassato. Poi ve ne andrete
per le vostre strade che non sono le mie,
e mill’altre cose vi direte apertamente
nel sole che si vela di pioggia e d’acquazzoni.
È qualcuno che me lo dice pacato,
che ritiene nelle sacche delle guance
il residuo etereo di un’emozione.
Io conosco quel qualcuno. La pioggia
vela il sole oltre la finestra;
l’acquazzone è pronto. Qualcuno. Qualcuno.


    Poi, riposte le carte nel cassetto

Poi, riposte le carte nel cassetto,
ve ne andrete. Ognuno a casa propria,
qualcuno poi nei sogni dell’altro
o nello stesso letto. Io non ci sarò.
Le carte non saranno con me: saranno,
ognuna con la sua vera effigie
nella buia comoda strettezza del pacco,
nel cassetto. Voi non ci sarete.
Saranno i monti velati di nuvole
e la luna fuori, il cane che mugugna.
E le montagne si faranno di vera
pietra, cresceranno, cresceranno, nel cielo
e nella notte.
Le asserirà nel sonno la memoria
o l’ultimo fumo del dormiveglia.


    I pastori verranno, senza gregge

I pastori verranno, senza gregge,
ma come di lana, come di nuvole,
nella notte. Li illuminerà la luna.
Verranno a benedirti, a prostrarsi,
senza umiltà o grandezza.
Semplicemente, loro. Alla mangiatoia.


    Poi io prenderò le vostre mani

Poi io prenderò le vostre mani
e vi sorriderò con gli occhi. Vi
benedirò senza parola. Vi saluterò.
Voi ve ne andrete, e saprete.
Anch’io saprò che voi sapete.
Mi basterà, verrà la luna, scenderanno
stelle, sbocceranno petali. Non so se
ci rivedremo. Neanche voi lo saprete.
Ma starete bene, pensandomi e ignorandomi.
Starete bene: credetemi!


    Pinocchio in Venice di Coover

Quando da Santa Lucia giunge un croscio
di vesti nella notte bianca di
foschia, e il professore atavico remnant
appare ossuto col suo carico
d’età, v’è sempre un uomo in maschera
che approdi al suo bagaglio, e se lo porti
via.


    Dopo la passeggiata notturna

Dopo la passeggiata notturna
la luna resta, a trasognarla.

Nicola D'Ugo