Warren, NJ (USA) 1987
Alla memoria di Alessandra Ferretti
Erano le undici
e il temporale ci prese
la luce elettrica e una sera
come tante altre sere
e ci diede giochi nuovi e candele.
Io traducevo
Il canto d’amore di J. Prufrock
a un’amica reggiana
e la porta s’aprì
e cadde acqua dalle vostre
vesti,
e il pavimento fu tutto un pantano
alla soglia
mentre altri ed altri entravano
che avevano un nome,
ed uno mi porse il suo
come una foglia d’oro
che va appesa al collo:
piccola, nuova,
facile da portare.
Eravamo amici eppure
nessuno lo diceva:
appena dai giorni del tempo
ogni foglia s’assise
su un unico ramo.
Parlammo e mimammo
i nomi dei film
che a vicenda
fossimo colti aggrovigliati
nell’arduo gioco d’una comunicazione
gestuale,
a cogliere frutti di segni
dall’ampio mondo del giorno
che nessuno discute,
ma ognuno adduce a narrare
il senso del verbo.
Così una notte.
Qualcuno disse: “Mima ai tuoi compagni
Luna di miele stregata.”
E uno fu l’orso, e spalmò
il miele su una fetta,
e fu Pinocchio e la Fata
e fu ancora uno sciame
ed un mostro
e nessuno capiva.
Oh quanto e difficile
cambiar codice pur anche
con coloro che ami:
e i suoni liquidi e una frizione
fra i denti, i sibili notturni
quasi mormorati dagli amanti,
e le vocali aperte e chiuse,
che mondo di segni!
Oh ma poco importava—
avvincente è la lotta
se tutti hanno le mani legate
e possono scioglierle
alla fine del gioco!
E dopo il gioco
una parola e via
nella pioggia attillata alle case
come un’aria vertiginosa.
Via nella pioggia
e nella vettura
a cercare gli odori che vanno nel sugo
d’una cena notturna
di penne e di vino
e baci e parole
e carte posate su un piano
d’angolo
che nessuno le possa sporcare.
E poi la danza di Parpi
seminudo dio del ritmo interiore
esteriorizzato
per noi presenti
e qualcuno si scosta
dal corpo frenetico
e altri urla: “Tormentón!”
a squarciagola ridendo.
M’unirò a questa danza,
uscirò fuori di essa.
La luna inciampa
in un prato di nuvoli,
s’alza più tardi
da un campo diverso
e qualcuno assonnato va a letto
innanzi l’attesa.
Le strade percorremmo
innanzi che l’alba fosse accennata.
E nella notte di tormenta
le strade erano erba
e i campi di terra,
e tutto era un mondo di sassi
che avesse deciso
di sciogliere le proprie membra
in un deliquio d’addio.
Solo, più grandi e maestosi,
apparivano i rivi ingrossati
che avresti chiamato fiumi
guardandoli
e poliziotti e carabinieri
vagavano con le loro vetture
cercando nell’alba il sereno.
E su, verso casa di nuovo,
a cantare la vita
con dentro una morte sì grande
che l’avresti potuta sapere
mirando dall’alto i miei occhi
che spiccavano stelle,
e lessero il sole attraverso le nubi,
come un belletto.
Mattia e Paolo dispersi nel tempo,
Dino fuggito, Gianluca dimenticato
prima d’ogni ripensamento
e il mondo che dorme e si sforza
di farsi nuovo al mattino.
Oh la casa di Paola venuta
da Avenza
e tanti visi che sanno parole
e scelgono a volte il silenzio
di baci e d’abbracci
che son fonti di fiumi
ben oltre il memento.
Oggi l’ardore
va ben oltre
l’ardore d’un tempo.
E tu viva in quel tempo
ti fai più grande che mai,
sopporterai –magari cosciente!–
i miei prieghi e i miei sogni
di te viva.
Torvajanica, Ciampino
e la strada di un treno
che a te giungeva.
Eppure tu, forse tu, sai
che l’ampia volta di astri e di stelle
seppur tetra splenda stanotte nell’uragano
ci splende per te.
L’ombra ebbra della tua carne
tutti ci unisce, ci trascende.
E il tuo grembo d’ombra
sfiora il viso delle nostre concezioni.
Ora occorre, ora serve
l’arte tutta italiana dell’arrangiamento.
Ora che i gesti nostri,
a te così sovente rivolti,
ci restano attaccati ai precordi
delle nostre concezioni future,
ora che la tua vita
pulsa in noi più sicura.
Nicola D'Ugo
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