18 novembre 2009

Qualche cosa e qualche posto

Roma 1997


Vita sgraziata, ma nuova vita ancora.
Come d'incanto, come d'eterno, come d'una scintilla
sfuggita a vivacorsa dall'inferno
a un diavolo troppo ardimentoso del proprio inesorabile scempio.
È giunta qui, qui appena sfiorando
lo sguardo d'una paglia, o d'una miccia,
o d'una dritta freccia che s'arriccia al contatto. Brucia,
ora brucia,
la ferita lappata troppo a lungo
sovrappensando.
Ecco, vedi! Ora puoi dirti vivo ancora
che quasi nulla sei
tolta la cintura color pelle
del tuo squamoso vanto.
Ora nudo, nella primavera che credesti
più prossima all'inverno,
ti togli l'autunnale veste dell'assemblaggio caduco.
Ora ti riconosci vivo, ma vivo color pietra,
nero, di nuovo nero,
d'ambra, rosa o perla fatto oscura ardesia.

Dovrai cambiare strade,
sentieri suburbani,
mescolarti ai tuoi simili
simili a animali?
Dovrai lasciare casa
a chi di rosa è fatto
e ritornar ben lesto,
e ritornar pian piano,
come un furtivo gatto
come un gatto fatto e matto
nei recessi fumigosissimi
di metropolitane?
O spezzerai te stesso
dinanzi a una catasta
di uomini tutti uguali
fatti della tua pasta?
O arderai del fuoco
bagnato sulla pelle?
O urlerai il tuo canto
raccolto dalle stelle?

Vita sgraziata, ma nuova vita ancora.
Come d'incanto, come d'eterno, come d'una favilla
appena appesa alla fanfaluca del fomentatissimo inverno,
dentro la casa accesa, dentro il ritrovo nostro
chiuso sopra e sotto foss'anche un minutissimo chiosco.
Ma casa nostra ancora di nascita più potente
del concepitore o dell'attonito concepente.
Come d'un balzo ecco escono subito dal recesso
un piccolo incedere di passi o una testa spuntata dal deserto,
sfingi d'umanità che hanno zoccoli per artigli,
stelle che cercano la propria luce negli occhi e negli specchi,
che si misurano in aperti sorrisi e in aggrottati cipigli,
segni sulla pelle che restano come segni appena,
leggerissimi, frequentatissimi e come ignorati in un'eclissi senza Tv a colori, e poi
più in alto sulla montagna e più dietro a noi fioriti nell'entroterra
frecce, dardi, lance che mirano in alto e in basso
spioventi che verticolano, lame e lacci che pendono,
pendolio di pendolo che sovrascrive il proprio tempo
su e giù, a Nord e a Sud, o a Nord-Est e a Sud-Ovest, o a Sud-Sud-Est e Nord-Nord-Ovest.
A sinistra e a destra.
Pendolio di pendolo che non si cura se sia gelido inverno,
ventilata estate, autunno rabbrividito o primavera molesta,
appena nata e già indigesta, calunniata da una giornalistica, corale, accorata tempesta.

Dovrai lasciare casa
abbandonare i tuoi simili
simili ad altri uomini
che hanno firme da mimi?
Ritoccherai i colori
fatti di rosso caldo,
di giallo paglierino
e di verde smeraldo,
colori che sulla pelle
tolgono il nero d'ombra
e s'aprono passaggi
nella folla che li ingombra?
Potrai passare fiero
nella luce del giorno
d'ardesia fatto nero
in generante ritorno?
O salterai dai piani
sulle alture di palchi,
salmodierai cantando
la varietà dei calchi,
volti simili, all'occhio
dell'inesperto tonto,
dell'uomo che ha nel conto
rarissime le cifre?

Vita aggraziata, la nuova vita, ancora?
Come d'incanto, come d'eterno, come d'una favilla
scaldata dentro un blues di fine inverno,
a sbando della politica e del tempo
della memoria scevra d'ogni inutile scempio,
urla di gioia, urla di dolore, urla in contro tensione d’azzeramento
l’uomo figlio dell’uomo e padre del nostro tempo.
Poi si distende, lenzuolo bianco, poi si stringe a sé, in sé si concentra
nel sonno tenue e supino del suo assestamento.
Vedi terre pianeggianti, brughiere e risacche
dove la felce incede pavoneggiando a dolci scarti,
dove il vento concede dinieghi e assensi miti,
va di foglia in foglia, senza piati o litigi.
Volti di zolla, palpebre di nuda terra che guardano il cielo viso a viso,
tetta che ciuccia un cielo dallo sguardo preciso.
Ecco la terra vergine, ecco la terra dei padri, dei padri
che furono padri prima del nostro tempo,
dipoi oltraggiato nell’irrefrenabile scempio.
Girare tenue di nuvole che scesero bianche bianche,
sempre più bianche, sempre più bianche, sempre più bianche,
finché un tuono mise il sopracciglio sul volto
rasserenato dal tempo reclino sui figli.
Rarefatto il capello, incurante dell’antico spaesamento,
del pendolio del pendolo che sovrascrive il proprio tempo,
la quiete sommessa passa nella brughiera, nel vento,
quando il sussulto del gallo non squilla sul deserto
della sabbia d'oro che colora le vesti.
Non canta più allarmistico il vecchio o giovane gallo,
il fiume, il fiume bianco o verde si distende monocromo e quieto
come quieta è la monocromia del fondo della brughiera,
come quieta è la pelle bianca nel bianco della folla di bianchi uomini tutti bianchi,
e la rossa pelle nel roggio rosso della folla di fulvi uomini tutti rubelli,
e di gialli o quasi gialli fra i gialli e quasi gialli,
mentre crepita la legna nell'inverno caldo d'intimità ritrovata,
prossima ma troppo a lungo lontanamente ricercata, fra guerre, proiettili, lance, dardi e spari,
frecce che non indicano, non stanno per, ma stanno,
frecce che stanno nella pelle, sul petto, nel cuore dell'albero.
Quieta è la melodia nel cuore della brughiera
e la volpe che passa lasciando le tracce di neve
sfiora appena il pensiero.
Sempre più bianco, sempre più bianco, sempre più bianco
è solo il pensiero che non si gemina con la pantera nella notte salata,
e non diciamo che è fuggito a vivacorsa dalle mani di un demone
per ardere intorno a sé bruciando tutto l’inutile diverso,
mentre una fronda si scrolla. Cenno d’intero bosco che si muove.
Folla che s’incanala nella marea della galleria metropolitana. Rotaie. Rotaie.
Fila brulicante davanti a Radio Days. Clacson in fuga. Fronde. Sponde.
Saluto tellurico.

Nicola D'Ugo

[Pubblicata in: PILONI, ROBERTO, Qualche cosa e qualche posto, Roma, s.e., Roma 1997. Poesia introduttiva al catalogo della mostra pittorica di Roberto Piloni tenutasi alla galleria AOC F58 di Roma.]

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